E di questo Paese che non ha pace - e che riporta alla memoria tragiche vicende per gli italiani allora impegnati nell’«Operazione Babilonia» - Fallujah è oggi un simbolo.
Giorni di battaglia, con centinaia di morti. Ieri, la conclusione: i miliziani jihadisti hanno conquistato Fallujah, sessanta chilometri da Baghdad, porta della provincia sunnita di Al Anbar, simbolo della resistenza agli americani. Una vittoria militare che ha anche un fortissimo significato politico: perché i jihadisti sunniti hanno inferto una cocente umiliazione al governo dello sciita Nuri al-Maliki. Le immagini rilanciate sui social network e sui siti web legati alla galassia islamista, non lasciano dubbi: le bandiere nere della Jihad sventolano su moschee, edifici pubblici, posti di blocco e sulle macerie di ciò che resta dei simboli di un governo che non c’è più. Almeno a Fallujah: il quartier generale della polizia, alcune caserme, la municipalità.
IL CALIFFATO JIHADISTA
A cantar vittoria sono i miliziani dello «Stato islamico dell’Iraq e del Levante» (Isis), espressione militante del crescente malcontento dei sunniti, in Iraq come nella vicina, e martoriata, Siria. Hanno conquistato Fallujah, occupato Ramadi, e dall’Iraq la potenza di fuoco dei qaedisti di «Isis» si estende sul Nord della Siria: da settembre ad oggi, i miliziani - ameno settemila - delle brigate jihadiste hanno conquistato prima la città di Azaz e poi, in rapida successione Jarabulus - ai confini fra Siria e Iraq - Raqqa, Dana, Tarib, Binnish e Al Bab, fino ad arrivare alla periferia di Aleppo, seconda città siriana.
Le prime istruzioni agli abitanti di Fallujah sono arrivati dagli altoparlanti delle moschee che dopo aver trasmesso gli inni jihadisti dell’Isis, hanno ordinato alla popolazione di non usare generatori elettrici in previsione di un assedio da parte delle forze irachene. Venerdì Azher Qasim, un abitante della città, ha raccontato per telefono a uno stringer del New York Times: «Siamo terrorizzati. I miei figli continuano a piangere. I rumori della battaglia non si interrompono mai. Uno è ammalato. Avrei bisogno di comprargli qualche medicina, ma non c’è nulla di aperto. Non abbiamo cibo e neppure riscaldamento. Viviamo alla luce delle candele».
Sconfitto sul campo, con un esercito in rotta, il primo ministro iracheno non ha trovato di meglio che invocare l’aiuto degli Usa, e di quell’inquilino della Casa Bianca, Barack Obama, che nel dicembre 2011, aveva festeggiato il rientro in patria dall’Iraq degli ultimi soldati del contingente Usa. Per i jihadisti la conquista di Fallujah ha anche un alto valore simbolico, e nell’universo islamista i simboli hanno un valore altissimo, sono una straordinaria arma di propaganda e di proselitismo. La riconquista di Fallujah ha un valore simbolico perché i jihadisti ne furono cacciati dall’esercito americano nel 2007, quando l’allora comandante delle truppe David Petraeus guidò lo schieramento di 3mila uomini, accompagnandolo dalla sigla di accordi di alleanza con le tribù sunnite locali.
Dalla conquistata Fallujah, i miliziani di «Isis» intendono ora lanciare l’offensiva finale per innalzare la bandiera nera anche su Ramadi, puntando così a trasformare il Triangolo Sunnita in una roccaforte jihadista. Dieci ani di guerra, e due di ritiro, non hanno pacificato l’Iraq, né stabilizzato il Medio Oriente. Semmai, è vero il contrario. Dall’Iraq alla Siria, passando per il Libano: un unico campo di battaglia della resa dei conti tra sciiti e sunniti; uno scontro all’ultimo sangue che si nutre di suggestioni religiose e mire di potenza. Gli incubi peggiori si materializzano: perché quella in atto, nel Triangolo Sunnita, è anche la battaglia per l’egemonia nel campo jihadista, tra quelli dello «Stato Islamico dell’Iraq e del Levante» e i fedelissimi di Al Nusra, emanazione diretta di al Qaeda.
Fallujah e Ramadi, secondo testimonianze raccolte dal New York Times, sono contese oggi fra miliziani jihadisti e clan tribali sunniti. Così come avvenne nel 2007, ma con una , fondamentale differenza: stavolta sul campo non c’è l’esercito statunitense. In Iraq si ripropone nel sangue, proprio come in Siria, un nuovo, devastante capitolo della lotta senza quartiere fra sunniti, il 25 per cento della popolazione, e sciiti, oltre la metà degli iracheni. Due anni dopo essersi ritirati dall’Iraq gli Stati Uniti hanno promesso armi a Baghdad. Ritorno al passato.
Ammissione di un flop. Riprova di una inquietante assenza di strategia politica. Doveva essere un Paese pacificato, l’Iraq. Questo nelle speranze coltivate a Washington, ma anche a Londra, Parigi, Berlino, Roma...Ma la realtà ha cancellato questa illusione. Nel 2013 la nuova guerra civile irachena ha ucciso 8868 persone. I civili caduti sono 7818.