L’INCHIESTA
La Procura di Milano: 1.150 milioni di Iva rubati al Fisco. Gli 007: sono finiti ai fondamentalisti islamici per la jihad
Cercavano Osama Bin Laden, trovarono solo un pugno di fatture. Ma per
le forze alleate il blitz in un covo dei talebani al confine tra
Afghanistan e Pakistan nel 2010 si è rivelato una miniera di
informazioni che attraverso Europa, Medioriente e Hong Kong hanno
portato sulle tracce di una colossale frode fiscale sui certificati
ambientali servita a finanziare anche il terrorismo islamico. Le stesse
orme seguite dalla Procura di Milano in un’indagine che, innescata dalla
denuncia di una commercialista terrorizzata, con l’incriminazione di 38
indagati e il sequestro di 80 milioni di euro colpisce ora
un’associazione criminale anglo-pakistana e una franco-israeliana che
dal 2009 al 2012 hanno rubato all’Italia più di un miliardo di euro di
Iva.
I documenti scoperti nel rifugio,
non lontano dall’area dove il 2 maggio 2011 i Navy Seals americani
hanno ucciso Bin Laden, conducevano ad Imran Yakub Ahmed, un pachistano
di 40 anni con passaporto inglese residente a Preston (Gran Bretagna),
amministratore della milanese “Sf Energy Trading spa”, sulla quale
stavano indagando i pm Carlo Nocerino e Adriano Scudieri nel pool
guidato dall’aggiunto Francesco Greco. I pm e la Guardia di Finanza si
erano mossi dopo che a presentarsi in Procura era stata una
commercialista di Milano spaventata dalla facilità con la quale
guadagnava soldi a palate lavorando per alcune società intestate a
prestanome cinesi e italiani, cartiere che facevano girare milioni di
euro vendendo e acquistando migliaia di carbon credit .
Con l’accordo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni
di anidride carbonica, infatti, ad ogni Stato è assegnata una quota
massima di produzione di CO2. Le aziende che producono meno gas-serra
del tetto assegnato possono vendere il rimanente della quota alle
imprese meno virtuose emettendo appunto carbon credit , certificati
ambientali che possono essere negoziati bilateralmente o in un mercato
telematico, scambi sotto la supervisione di autorità pubbliche nazionali
quali in Italia il «Gestore dei Mercati Energetici», una spa che fa
capo al Ministero dell’Economia.
Le due organizzazioni criminali operavano
sia singolarmente che insieme. Acquistavano i certificati in Gran
Bretagna, Francia, Olanda e Germania attraverso società fittizie con
sede in Italia, vere e proprie «cartiere» che producevano solo fatture e
che erano intestate o a prestanome quasi sempre cinesi o a persone
estranee ma vittime di furti d’identità. Dopo aver acquistato senza
pagare l’Iva, esclusa in questo tipo di transazioni intracomunitarie, le
«cartiere» aggiungevano l’Iva al 20 per cento e vendevano i certificati
ad altre società, anche queste fittizie, che facevano da intermediari
con gli ignari acquirenti finali. Una volta incassata l’Iva, invece di
versarla allo Stato italiano la «cartiera» chiudeva i battenti e spariva
nel nulla, mentre i soldi, milioni e milioni di euro, venivano
dirottati su conti correnti a Cipro e Hong Kong per finire a Dubai,
negli Emirati Arabi Uniti. Lì le rogatorie avviate dai pm milanesi a
caccia di Imran Yakum Ahmed sono cadute nel nulla, mentre i soldi
sottratti all’Erario italiano sono stati riciclati in diamanti ed
investimenti immobiliari. C’è stato anche qualcuno che non ha resistito e
ha comprato due orologi da 50mila euro ciascuno in una prestigiosa
gioielleria di Roma.
Ma l’aspetto più inquietante che emerge
dalle carte dell’indagine milanese è che dietro le «imponenti
operazioni di riciclaggio» legate alla frode fiscale potrebbe celarsi un
canale di «finanziamento al terrorismo internazionale» di matrice
islamica. A lanciare l’allarme sono stati i servizi segreti americani e
inglesi che hanno esaminato la documentazione trovata tra le montagne
tra Pakistan e Afghanistan e hanno segnalato tutto alla «Hm Revenue
& Custom di Londra», una sorta di GdF inglese, il cui ufficio
stampa, contattato dal Corriere della Sera , non ha fornito ulteriori
dettagli perché non può «discutere di singoli casi per ragioni legali».
Peraltro i pm milanesi non hanno prove dirette su questo profilo, né
possono utilizzare le carte dell’intelligence . Questo meccanismo
criminale è stato replicato per anni in centinaia di transazioni facendo
impazzire le polizie di tutta Europa, fino a quando le due
organizzazioni hanno trasferito gli affari in Italia dopo che altri
Paesi dell’Ue erano corsi ai ripari con norme che avevano di fatto rotto
il giocattolo. Un ginepraio in cui si sono mossi anche gli
investigatori della «Bundeskriminalamt» tedesca, della «Service National
de Douane Judiciare» francese, ma anche di Belgio e Liechtenstein,
tutti coordinati da Europol e Eurojust. La conclusione è che i mercati
energetici europei sono «fortemente manipolati e comunque viziati da un
numero impressionate di transazioni commerciali effettuate al precipuo
scopo di realizzare rilevanti frodi agli Erari». La preoccupazione è
alta, tanto che le indagini sono state estese a livello internazionale
acquisendo i dati in possesso del «Citl», l’ente di Bruxelles che
monitora a livello europeo gli scambi dei permessi di emissione di CO2.
Le indagini della Procura milanese, chiuse in questi giorni in vista della richiesta di processo, solo per il primo filone hanno scoperto una frode da 660 milioni, di cui 80 sequestrati. Trentotto gli indagati di cui 11 ricercati, e un centinaio le perquisizioni eseguite in società e abitazioni. Un’inchiesta parallela, ancora in corso, sta già disvelando un’altra frode del tutto analoga che ha sottratto ai contribuenti italiani altri 450 milioni.